domenica 2 settembre 2012

la contessa pazza per gli animali



2 Settembre 2012
l'adige trento
«La caccia è un atto d'amore. È una passione intensissima che nasce tra l'uomo e l'animale, e che si appaga solo nel possederlo pienamente e totalmente. Io sparo soltanto quando sono certa che il mio colpo è mortale. Non ho mai ferito gli animali, e non voglio far loro del male».
La contessa Maria Luisa Pompeati, della stirpe dei von Ferrari Kellerhof, imparentati con il Giulio Ferrari degli spumanti, palazzo a Santa Maria Maggiore e splendida tenuta a Oltrecastello, comprensiva di vigneti, laghetto e vista mozzafiato sulla città, è una cacciatrice passionale. La caccia ce l'ha nel sangue fin da quando era bambina, ed è stata fra le prime cacciatrici donna in Trentino, quando portare il fucile era per eccellenza una «cosa da maschi». Tra i suoi trofei: galli cedroni, galli forcelli, beccacce, pernici bianche, e maestosi esemplari di cervi, camosci e caprioli. «Anche quindici capi in una stagione», racconta. «Che poi ho imbalsamato, e li ammiro tutti i giorni».
Oggi, primo giorno di caccia, accompagnerà il marito, il conte Francesco Pompeati, noto avvocato di Trento.Contessa, quando le è nata la passione per la caccia? Com'è che una donna, di nobile lignaggio per giunta, decide di fare la cacciatrice?
«Ce l'ho sempre avuta nel sangue. Nella casa di campagna di Lases (che in paese chiamavano il castello per le mura merlate), dove trascorrevo le estati da bambina, avevamo una galleria di armi antiche e di trofei di caccia. Soprattutto c'era un cervo affascinante: io ero attratta da questo cervo. A vent'anni mi sono sposata, e con mio marito cacciatore ho cominciato ad andare a caccia regolarmente».Cosa prova quando vede la preda, mira e spara?
«È una forma di liberazione, è l'adrenalina compressa che ha sfogo. Il cuore batte forte e l'emozione è al massimo. La caccia infatti ha tutta una preparazione e un'attesa, che ha il suo compimento quando si coglie la preda. È la stessa sensazione di quando ci si innamora. Quando vado a caccia del cervo, passano anche diversi giorni in cui l'osservo, l'ammiro, lo sogno. C'è come una sorta di corteggiamento, fino a che diventa tuo per sempre. Io sparo infatti solo quando sono certa che il mio colpo è mortale. Io non ho mai ferito gli animali, e non voglio far loro del male».Non c'è contraddizione nel dire che si vuol bene agli animali sparandogli e uccidendoli?
«Un antico filosofo diceva: se tu uccidi ciò che ami, e ami ciò che uccidi, non domandarti il perché: questa è la caccia. Per me è una storia d'amore, tra me e l'animale, che si appaga nel momento in cui è tuo per sempre. Così è per tutti i cacciatori».Ha mai avuto rimorsi o sensi di colpa per aver abbattuto un animale?
«No, perché non c'è crudeltà. È un atto d'amore. Io non abbatto tanto per abbattere, per far numero, per collezionare trofei. Lo faccio perché nasce una passione intensissima tra me e l'animale da cacciare. Del resto io imbalsamavo tutti i capi abbattuti, finché poi non sapevo più dove metterli. Mi prendevano in giro perché ho imbalsamato anche una femmina di capriolo, e non si usa fra i cacciatori perché non ha il trofeo. E invece l'ho imbalsamata vicino al suo cervo, perché si facciano compagnia, e si parlino... Su ogni cartuccia sparata metto un'etichetta con il giorno e il capo abbattuto».Contessa, ma la selvaggina la imbalsama soltanto, o la mangia anche.
«Certo che la mangio. È il completamento di questa storia d'amore. Si ama così tanto da farlo proprio, da possederlo. Nessun altro te lo potrà più portare via».Cos'è che le dà più gioia: l'ammirazione dell'animale e l'attesa, l'abbattimento o il cucinarlo e mangiarlo?
«Direi che è proprio il momento, dopo che hai sparato, del sapere che l'hai centrato, che l'hai preso. Io poi corro da lui, prendo tra le mani la sua testa, l'accarezzo, arrivo fino a baciarlo, in certi casi lacrimo di gioia».



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